La fotografia è silenzio.
È tempo fermato, sospeso. È uno sguardo che dice senza urlare, che resta anche quando tutto si muove.
Per me non è mai stata solo un mestiere. È stato il primo linguaggio che ho scelto per raccontare, per capire, per dire “io ci sono”.
Avevo 16 anni quando ho preso in mano la prima macchina fotografica. Non sapevo esattamente cosa stessi cercando, ma sapevo che guardare mi avrebbe portato più vicino alle cose. Alle persone. A me stesso.
Poi, qualche anno fa, è arrivato un tempo complicato. La fotografia era diventata fatica, peso, routine, problemi. Mi sembrava di non avere più nulla da dire, o che tutto fosse già stato detto meglio da altri.
Ho pensato seriamente di smettere. Di cambiare strada. Di chiudere quella parentesi iniziata da adolescente.
Ma poi ho fatto una cosa che a molti sembrerà folle, e per me è stata un atto necessario: ho disegnato e mi sono tatuato una macchina fotografica sull’avambraccio.
Non per estetica, ma per memoria.
Per ricordarmi ogni giorno che le cose importanti non si abbandonano nei momenti difficili.
Perché io sono anche quella macchina fotografica.
Perché da lì è cominciato tutto.
Oggi, nella Giornata Mondiale della Fotografia, non celebro solo una passione, ma un’alleanza.
Un modo di stare al mondo.
Un promemoria sul fatto che a volte basta guardare davvero per tornare a sentire.
Che sia con una reflex, uno smartphone o una vecchia analogica, fotografare è un atto d’amore.
Verso ciò che vediamo.
Verso chi siamo stati.
E verso ciò che non vogliamo dimenticare.