Gianni Berengo Gardin: l’ultimo grande cantore della fotografia italiana e il suo sguardo sulla Basilicata

Gianni Berengo Gardin: l’ultimo grande cantore della fotografia italiana e il suo sguardo sulla Basilicata

Ci sono fotografi che fermano il tempo. E poi c’è chi, come Gianni Berengo Gardin, ha saputo trasformare il tempo stesso in racconto, in memoria collettiva, in coscienza. La notizia della sua scomparsa, il 7 agosto 2025, lascia un vuoto enorme nel mondo della fotografia e in chi, come me, considera la fotografia un linguaggio, non solo una tecnica.

Aveva 94 anni, una vita intera dedicata a raccontare le persone, i luoghi, i gesti quotidiani, con un rigore narrativo che oggi sembra quasi scomparso. Più di 260 libri pubblicati, centinaia di mostre in tutto il mondo, milioni di scatti che hanno composto un archivio visivo senza pari della storia italiana.


Il fotografo dell’uomo

Berengo Gardin rifiutava etichette come “artista”. Amava definirsi “un artigiano” della fotografia, sottolineando che la sua missione non era creare immagini da galleria, ma raccontare storie vere.

Il suo era uno sguardo umanista, erede della grande scuola del reportage europeo, figlio spirituale di Henri Cartier-Bresson e vicino, per sensibilità, a Sebastião Salgado. Ma se Cartier-Bresson cercava l’istante decisivo, Berengo Gardin cercava il momento giusto per capire. Non c’era fretta nei suoi scatti: c’era pazienza, ascolto, rispetto.


L’Italia e la Basilicata nel suo obiettivo

Berengo Gardin ha fotografato fabbriche, manicomi, comunità rom, città in trasformazione. Ha documentato il Nord industriale e il Sud rurale. E qui entra in gioco un legame che mi è particolarmente caro: quello con la Basilicata.

Nei suoi viaggi nel Mezzogiorno, si è fermato anche qui, raccontando una terra che all’epoca era lontana dall’immaginario turistico. Le sue immagini della Basilicata non sono mai cartoline: sono ritratti di verità. Volti di contadini, mani rugose che stringono attrezzi, donne vestite di nero nei vicoli, bambini che giocano sulla polvere. E poi paesaggi aperti, montagne che sembrano trattenere il vento, campi di grano mossi dalla brezza.

Chi conosce la Basilicata sa che c’è una sorta di silenzio nella sua bellezza. Berengo Gardin ha saputo catturarlo. Non un silenzio vuoto, ma pieno di storie.


Un’eredità per chi fotografa oggi

La lezione di Berengo Gardin è attuale, forse più oggi che mai. In un’epoca in cui la fotografia è veloce, filtrata, prodotta per essere scrollata sullo schermo, lui ci ricorda che la vera forza di un’immagine sta nel tempo che le dedichiamo – sia per crearla, sia per guardarla.

Il suo approccio era quasi politico: usare la fotografia per dare voce a chi non ne ha. Lo fece con il celebre reportage “Morire di classe”, insieme a Carla Cerati, denunciando le condizioni nei manicomi italiani. Lo fece nei suoi lavori per Il Mondo e per le grandi campagne editoriali. E lo fece, a modo suo, anche raccontando la Basilicata, offrendo dignità e centralità a un territorio spesso marginalizzato.


Perché il suo addio ci riguarda

Non è solo un grande fotografo che se ne va. Con lui se ne va un certo modo di pensare la fotografia: lenta, attenta, rispettosa. Una fotografia che non cerca il “like” immediato, ma un dialogo con chi la guarda.

Come fotografo lucano, sento questa perdita in modo personale. Perché il suo sguardo sulla mia terra è stato sincero e privo di filtri estetizzanti. E perché la sua filosofia di lavoro – non manipolare, non tradire la realtà – è la stessa che cerco di portare nei miei progetti.


Ricordarlo, oggi

Forse il modo migliore per onorarlo non è solo guardare le sue foto, ma uscire e scattare con la stessa curiosità e rispetto. Camminare in un paese lucano, parlare con la gente, ascoltare prima di fotografare. E ricordare che la fotografia non è mai solo immagine: è relazione.


Approfondimenti

Giuseppe Lotito

www.giuseppelotito.it