Il 28 giugno 2024, Nike ha perso 25 miliardi di dollari di capitalizzazione in un solo giorno. Non a causa di una crisi economica globale, né per un errore di produzione. La vera causa è stata più sottile, ma devastante: una strategia aziendale che, per anni, ha puntato quasi esclusivamente sulla massimizzazione del ROI.
Nel tentativo di rendere tutto misurabile, Nike ha imboccato la via del “ROIsmo”, come l’ha definita recentemente Marketing Week (fonte). Un approccio iper-razionale che elimina ciò che non genera risultati immediati. È una visione che taglia brand, cultura, relazioni e storytelling in nome dell’efficienza e dell’automazione.
Sotto la guida di John Donahoe, dal 2020, l’azienda ha smontato pezzo per pezzo la sua identità storica. Ha ristrutturato i team per genere e non per sport, licenziato centinaia di product specialist, ridotto drasticamente il budget per il marketing di marca, spingendo tutto su performance marketing e canali digitali. Il risultato è stato un indebolimento progressivo della brand equity: le campagne sono diventate rare e poco memorabili, l’engagement social è crollato del 45% e il Net Promoter Score è passato da 72 a 41.
In parallelo, aziende come Hoka, On Running e New Balance hanno colmato il vuoto. Questi brand hanno investito su community, identità culturale, partnership e racconto. Hanno fatto leva sulla coerenza narrativa, mentre Nike si è ritrovata con un prodotto ottimo ma privo di significato condiviso. La logica del solo “Direct-to-Consumer” ha mostrato i suoi limiti, anche nei numeri: i costi di acquisizione clienti (CAC) sono saliti, il tasso di reso ha toccato il 30%, e meno del 10% dei clienti acquistava una seconda volta.
Nel 2024, Nike ha deciso di correggere la rotta. Con il ritorno di Elliott Hill alla guida, il brand ha ripreso a parlare la sua lingua. Ha rilanciato le categorie sportive, riaperto i canali wholesale (Foot Locker, Macy’s), riassunto 200 specialisti di prodotto e avviato nuovi investimenti in R&D. L’esempio più potente è arrivato con la vittoria di Jannik Sinner a Wimbledon: nessuna call to action, nessun funnel, solo un’immagine semplice e potente con tre parole: Winning heals everything.
Questo è un cambio di passo importante. È il segnale che, per quanto importanti siano i dati e le metriche, la comunicazione autentica è il vero capitale reputazionale. Quando un’azienda dimentica ciò che l’ha resa rilevante per inseguire solo ciò che può misurare, finisce per perdere identità, senso e relazione con il pubblico.
In un’epoca in cui i numeri raccontano molto, ma non tutto, il brand rimane l’unico asset non replicabile, la vera differenza in un mercato saturo. La lezione di Nike è chiara: il cliente non si possiede, si conquista ogni giorno, con coerenza, emozione e presenza.
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